L’albero delle cose lanciate sopra - storia 1

scritto da Strabik92
Scritto 23 ore fa • Pubblicato 13 ore fa • Revisionato 13 ore fa
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Narrativa autobiografico-educativa/Testimonianza pedagogica
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Testo: L’albero delle cose lanciate sopra - storia 1
di Strabik92

Il grembiule bianco di Monica

In bilico tra due rami, spicca un grembiule da chef. È bianco, troppo grande per chi l’ha indossato, con qualche macchia che non va più via. Lo vedo sventolare come una bandiera, e ogni volta penso a Monica.

Monica era una bambina paffutella, con un viso pronto a sciogliersi in un sorriso che sembrava chiedere al mondo: “Posso restare anch’io?”. A casa non c’era molto: viveva in un appartamento piccolo, con pochi oggetti e tante assenze. Sua mamma, generosa ma segnata da una vita difficile, non aveva mai potuto studiare: non sapeva leggere né scrivere. Nonostante questo, sapeva trasmettere alla figlia ciò che contava davvero: la presenza, l’affetto, la cura.

Monica cresceva in questo equilibrio fragile, tra mancanze materiali e ricchezze affettive. Il suo sogno, però, non conosceva misure ridotte: voleva diventare cuoca. Non chiedeva giochi costosi, né mode del momento. Le bastava un grembiule e la libertà di impastare, sporcare di farina i tavoli, inventarsi ricette. In quel grembiule bianco troppo largo si sentiva al sicuro, capace, già proiettata in un futuro che profumava di pane caldo e di amicizia intorno a un tavolo.

Accanto al sogno della cucina, c’era la musica. Monica amava il cantante “Sangiovanni”, e fu lei a farmelo conoscere. Una volta, con gli occhi che brillavano, intonò: “Se vuoi ti compro tutta Malibu”. Quella canzone, apparentemente leggera, era per lei un grido di speranza: un mondo colorato e spensierato in cui rifugiarsi quando la realtà diventava troppo stretta. Ogni volta che la canticchiava, le pareti della sua vita si allargavano e per qualche istante diventava possibile respirare a pieni polmoni.

A scuola il cammino era stato in salita. Le prime difficoltà l’avevano convinta di “non essere portata”, ma tutto cambiò quando scoprì le mappe concettuali e gli strumenti compensativi. Era come se qualcuno le avesse regalato delle chiavi nuove per aprire porte che prima sembravano sbarrate. In poco tempo, Monica cominciò a prendere fiducia: lo studio non era più un muro invalicabile, ma un sentiero faticoso sì, ma percorribile. E in quel sentiero, ogni passo avanti la rendeva più forte.

C’era però un lato più complesso, che la rendeva tenera e vulnerabile allo stesso tempo: la sua fame d’amicizia. Monica non si accontentava di relazioni leggere o superficiali. Cercava legami esclusivi, totali, assoluti. Si attaccava alle persone con tutte le sue forze, fino quasi a soffocarle. Non per cattiveria, ma per paura di restare sola. Questa sua “mania dell’amicizia” spesso la portava a vivere entusiasmi intensi seguiti da inevitabili delusioni.

Un giorno, il bisogno di raccontarsi esplose inaspettatamente. Monica tornò al centro in lacrime: era stata bullizzata da una persona che credeva amica, proprio in un grande centro commerciale. Tra le corsie affollate, le parole di scherno l’avevano colpita come sassate.
All’inizio non riusciva a parlare: singhiozzava, tremava, stringeva i pugni. Poi, pian piano, lasciò uscire il dolore. “Era un’amica… almeno io pensavo che lo fosse. E invece davanti agli altri ha riso di me, mi ha presa in giro, e io… io non so più a chi credere.”
In quel momento capii quanto fosse prezioso darle spazio per raccontarsi: trasformare il pianto in parola, il vissuto in consapevolezza. Quel giorno Monica fece un passo importante: scoprì che condividere il dolore con qualcuno che ascolta può alleggerire il peso.

Il tempo passava, e Monica cresceva. Continuò a frequentare il centro fino ai primi anni delle superiori. Poi, lentamente, arrivò il momento di salutare. Non fu una separazione improvvisa: fu un processo, quasi naturale. Il suo modo intenso di cercare legami cominciava a riversarsi anche su alcuni dei ragazzi più piccoli, a volte in modi non sempre accoglienti o rispettosi. Monica lo capì, a modo suo. E scelse, con coraggio, di prendere la sua strada.
Non fu un addio facile, ma fu un segno di crescita. In quel gesto c’era maturità: la consapevolezza che per andare avanti occorre anche lasciare andare.

Oggi, quando guardo il grembiule bianco appeso sull’albero, penso a tutto questo: al sogno di una cucina luminosa, alle note di Malibu, alle lacrime in un centro commerciale, alle mappe concettuali che aprono porte, ai legami forti e fragili che hanno segnato il suo percorso.
Il grembiule di Monica è un promemoria educativo: i bambini non hanno bisogno di perfezione, ma di spazi in cui i loro sogni possano respirare; hanno bisogno di strumenti, ma anche di ascolto; cercano amicizie, e a volte si perdono, ma anche così imparano a crescere.

Monica mi ha insegnato che un grembiule può essere più di un capo di stoffa: può diventare un mantello, un simbolo di dignità e di possibilità.
E che ogni bambino, anche con un bagaglio difficile e poche risorse, se accolto, può trovare la forza di cucinare la propria vita con gli ingredienti che ha, trasformandoli in qualcosa di unico.

L’albero delle cose lanciate sopra - storia 1 testo di Strabik92
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